ABSTRACT

Il 'teatro narrazione' è stata una delle etichette più in voga all'inizio degli anni Novanta, e, da allora, anziché eclissarsi o ripetersi perdendo lo smalto della novità, è piuttosto diventato una possibilità diffusamente praticata e reinterpretata dal mondo teatrale, un quasi genere, che, in un ideale palinsesto delle possibilità scenico-performative, affianca il 'teatro ragazzi', il 'teatro danza', il 'teatro immagine', la 'sperimentazione', il 'teatro di prosa' e il 'teatro nel sociale'. Rappresentati in piccoli e grandi teatri, in festival, in spazi aperti, in istituti pubblici, in case e ovunque capitasse, ma anche teletrasmessi e noti al grande pubblico, spettacoli come Kohlhaas (1990) di Marco Baliani, 1 Passione (1993) di Laura Curino 2 e il Racconto del Vajont (1994) di Marco Paolini, 3 hanno imposto all'attenzione degli spettatori e dei teatranti la figura del narratore. Figura dal sapore antico e che, però, essendosi incarnata nelle persone di questi attori/autori, frutto delle loro esperienze e scelte espressive, è apparsa originale, assolutamente contemporanea e, addirittura, capace di risolvere l'annoso rapporto d'incompatibilità fra ricerca e fruizione 'popolare' (nel senso di fruizione non 'colta', non intellettualmente mediata, ma fondata sulla condivisione d'uno stesso sentire, che si traduce in immediati riscontri fra impressioni sceniche e vissuto personale). Le società tecnologicamente evolute come la nostra affidano il compito di intrattenere e quello di coltivare le memorie della collettività a differenti pratiche e istituti, dimenticando così le potenzialità della loro sintesi umana che si realizza, per l'appunto, nel narratore, il quale, a differenza dei libri, delle trasmissioni e dei mezzi audiovisivi, e in modo ancor più radicale di quanto possono fare gli spettacoli drammatici, i cui contenuti sono filtrati dalle convenzioni rappresentative, comunica direttamente con lo spettatore inserendo il proprio parlare nel suo vissuto.