ABSTRACT

La geografia culturale italiana non esiste, o quasi. Forse sarebbe più giusto dire che non esiste, nella geografia accademica italiana, un insieme coerente di filoni di ricerca che, alla stregua di quello che accade in altre accademie nazionali, si possa chiaramente identificare con una simile etichetta. In altre parole, non è riscontrabile, nel panorama accademico italiano, niente di paragonabile a quello che negli anni Ottanta e Novanta, sulla scorta dei lavori di Denis Cosgrove, Stephen Daniels e Peter Jackson è accaduto nella geografia britannica. Non ci sono infatti in Italia cattedre in geografia culturale, e molto rari (inesistenti fino a poco tempo fa) sono i corsi insegnati all’università designati con quel nome. Fabio Lando qualche anno fa sottolineava come nelle grandi analisi sulla ricerca geografica italiana prodotte negli ultimi anni (Corna Pellegrini 1987; Corna Pellegrini e Brusa 1990) la geografia culturale non trovi ospitalità (Lando 1995: 495). Con l’esclusione di alcuni filoni di pensiero di eccellenza—sui quali tornerò tra breve—la maggior parte dei lavori che toccano esplicitamente o implicitamente il rapporto tra geografia e cultura, e non sono pochi, risentono di una serie di caratteristiche che sono proprie di una fetta importante della recente produzione geografica italiana: tendono spesso ad ignorarsi vicendevolmente—impedendo così di fatto lo sviluppo di un aperto dibattito disciplinare—hanno uno scarso impatto al di fuori della disciplina e, soprattutto, sono l’esito di uno splendido isolamento rispetto al dibattito internazionale. I lavori che nelle prossime righe annovererò tra le fila di una ipotetica geografia culturale italiana, se si escludono alcuni casi, tengono infatti in pochissimo conto ciò che è avvenuto o sta avvenendo in quella che viene comunemente considerata (forse discutibilmente) ‘geografia culturale internazionale’. Questa doppia assenza—della maggior parte dei geografi ‘culturali’ italiani dal dibattito internazionale e della geografia culturale dal panorama ufficiale della disciplina—è ascrivibile a complesse ragioni storiche e attitudinali che non ho qui lo spazio di approfondire (si vedano Guarrasi 1989; Lando 1995), ma che hanno giocato un ruolo determinante nel destino di quel pezzo di produzione geografica che mi accingo a commentare. Mi si permetta di premettere tuttavia che questa parziale assenza, se ha portato ad una frammentazione e una dispersione certamente deleterie per la disciplina, ha paradossalmente consentito, anche in virtù della bassa (o nulla) strutturazione del dibattito interno, un proliferare di riflessioni teoriche ricco e straordinariamente originale, che proverò nelle prossime pagine a richiamare con una qualche sembianza di ordine.