ABSTRACT

Nella tradizione teatrale napoletana, come è noto, e in particolare in quella ottocentesca, di primaria importanza è la figura capocomicale dell’attore-autore, che procede sino al pieno Novecento con le esperienze di Raffaele Viviani e dei fratelli Eduardo e Peppino De Filippo. ‘Napoli ha costituito, da sempre, — afferma, infatti, Stefano De Matteis — un caso eccezionale nel panorama teatrale italiano: per la particolarità, la prepotenza attorica e la capacità delle sue funzioni, per il tipo di organizzazione e di politica interna ed esterna; per la mentalità contraddittoriamente chiusa e, al tempo stesso, disponibile a ogni apertura o contaminazione’. 1 Nel corso dell’Ottocento si individuano peculiarità specifiche che, per motivi anche esemplificativi, racchiudiamo nelle sole persone di Pasquale Altavilla, Antonio Petito, ed Eduardo Scarpetta. I tre mostrano una progressione che va da un teatro buffonesco, comico, legato alla tradizione della commedia dell’arte e delle varie maschere di Pascariello e Pulcinella (Pasquale Altavilla), per giungere al superamento della maschera pura, verso un ambiente borghese e la mezza maschera di Don Felice Sciosciammocca (il culmine con Eduardo Scarpetta). Si tratta di un’evoluzione impossibile senza l’attività di Antonio Petito e, in effetti, il discorso su Petito e Scarpetta è ben noto e affrontato in molti studi. Meno diffusa, invece, è l’analisi dell’attività di Pasquale Altavilla. Nel voler arrivare al punto focale del nostro discorso, ovvero alla situazione teatrale nella Napoli di fine Ottocento, in cui assistiamo ad una lunga polemica (in primis contro lo Scarpetta) che vuole spostare il teatro partenopeo quasi da una drammaturgia dell’attore ad una drammaturgia dell’autore, occorre, innanzitutto, fornire brevi cenni sui tre personaggi succitati.